fonte articolo e foto – domusweb.it – alba cappellieri
Incontro con il maestro olandese, oggi ottantenne, pioniere del gioiello contemporaneo, visionario autore di capolavori senza tempo. Come la sua poltrona, manifesto sia del confort, sia dell’efficienza produttiva.
Gijs Bakker ha appena compiuto 80 anni ma non li dimostra. I suoi occhi azzurri, gentili e sempre sorridenti si spostano rapidamente tra gli oggetti e le persone dello showroom Cassina, dove ci incontriamo, e raccontano bene la sua vitalità e la sua onnivora curiosità.
Il maestro olandese è uno dei protagonisti più influenti e interessanti del design internazionale e, dagli anni Sessanta a oggi, ci ha insegnato molto sul progetto. E continua a farlo.
I suoi gioielli in plexiglas e in alluminio degli anni Settanta hanno dato inizio al gioiello contemporaneo, un territorio dove l’interazione con il corpo, la ricerca di materiali e di tecnologie innovative e l’unicità della creatività hanno di fatto creato una nuova percezione dell’ornamento. Per questo nel 1996 ha fondato, con Marijke Vallanzasca, Chi ha Paura…? (Who’s afraid of?), una collezione di gioielli realizzati dai principali designer internazionali – Marc Newson, Ron Arad, Konstantin Grcic, i Campana, Martí Guixé, Rolf Sachs, Hannes Wettstein, per citarne solo alcuni – che hanno combinato le forme del gioiello con i metodi del design. Gioielli sorprendenti per materiali e concetti, provocatori e a volte dirompenti, di certo mai banali, che ci fanno riflettere sulle diverse accezioni del gioiello contemporaneo.
Gijs Bakker è anche il visionario fondatore dei Droog Design, insieme a Renny Ramakers e alla DMD (Development Manufacturing and Distribution), dove ha anticipato le intersezioni del design con l’arte e con l’artigianato artistico, producendo serie limitate progettate da designer emergenti riuniti in un collettivo.
Con Droog Design, nel 1993, e Chi ha paura…?, nel 1996, il maestro olandese ha segnato un nuovo corso per il design contemporaneo, scardinandone alcuni dei principi costitutivi e decretando, di fatto, il successo della scuola olandese e dei suoi protagonisti nel mondo. Il suo approccio multidisciplinare ha aperto squarci nella metodologia progettuale, in grande anticipo rispetto alle visioni monoculari del tempo, mentre la sua visione calvinista della creatività applicata ai processi produttivi ha creato capolavori senza tempo.
La GB Chair è tra questi. Progettata nel 1972 come “un pezzo di gommapiuma piegata a 90 gradi e poi fissata a uno scheletro metallico” la celebre poltrona è il manifesto del comfort, talmente comodo da essere battezzata “la sedia di Levi’s” come un paio di jeans comodi – ma anche della efficienza produttiva. Un oggetto accogliente ed elegante, nomade, flessibile nella composizione, semplice nella produzione, che bene interpretava le istanze di libertà e rivoluzione dei giovani sessantottini. Il tempo non ha scalfito né l’originalità né il comfort della GB Chair, dimostrando che il good design può vincere sulla moda e la sua stagionalità, e per questo è stata appena rieditata da Karakter, mitica azienda del design danese oggi nel gruppo Cassina.
Karakter ha fatto del Rethink design uno dei propri pilastri, creativi e sostenibili, e la GB Chair di Gijs Bakker ne è un esempio significativo, insieme ai capolavori di Achille e Pier Giacomo Castiglioni, Paul McCobb, Joe Colombo e Angelo Mangiarotti.
Per Christian Elving, amministratore delegato di Karakter, “La GB Lounge è comoda e informale, ed è attuale oggi come nel 1972. Ciò che mi incuriosisce molto di Gijs Bakker e di gran parte del suo design è la capacità di creare pezzi originali e audaci, mantenendo però una semplicità che permette al design di essere esplicito, ma non esagerato. La GB Lounge ne è un ottimo esempio. Con la sua semplice idea progettuale di un materasso piegato a 90 gradi e fissato a una struttura metallica, vanta un linguaggio di design molto deciso e moderno, anche se concepito 50 anni fa”.
Sulla genesi della GB Chair ne parliamo con Gijs Bakker.
Nel 1972 ha ideato la GB Chair, soprannominata “la sedia di Levi’s” per il suo comfort avvolgente, “come un paio di jeans a cui siamo affezionati”, curvando un pezzo di gommapiuma a 90 gradi e fissandolo in una struttura metallica. Un design sorprendente! Non era solo bella e comoda, ma anche funzionale grazie ai moduli facilmente personalizzabili e geniale in termini di progettazione e produzione. Era perfetta per la società nata negli anni ’70 che richiedeva nuovi mobili. Difatti, la GB Chair rappresentava la risposta estetica e contestuale a questa nuova esigenza.
Può raccontarci la generazione concettuale della GB Chair nel 1972?
Nel 1972, subito dopo gli anni Sessanta, volevamo una vita più semplice, meno formale, eravamo i giovani del futuro! L’arredamento tradizionale non era adatto e per questa ragione noi designer dovevamo proporre nuovi interni radicali e i relativi mobili. Negli anni Sessanta, quando ci riunivamo con gli amici, ci sedevamo a terra su dei cuscini e quando eravamo stanchi ci spostavamo lentamente verso il muro. Ci ribellavamo anche al gusto borghese dei divani soffici e cercavamo il nuovo, il puro. Leggendo di un concorso indetto dall’azienda britannica di materassi Dunlop, ho realizzato un prototipo in scala di un materasso curvo tenuto in posizione verticale da una struttura metallica. Il telaio era il più essenziale possibile. Tuttavia, non arrivò mai a Londra poiché quando l’azienda olandese Castelijn prese visione del modello in scala mostrò fin da subito un grande interesse. Per evitare qualsiasi riferimento al gusto borghese, ho scelto il cotone dei blue jeans, ho riprodotto il colore arancione per la struttura metallica e le cuciture e ho inserito una tasca sul retro della sedia per riporre giornali e riviste. Il cotone non era adatto per i mobili e le crisi petrolifere avevano raddoppiato il prezzo della gommapiuma, e così è nata la sedia.
Come è avvenuto il processo di restyling di Karakter GB?
Karakter fa parte della famiglia Cassina e, proprio per questo, ho avuto la fortuna di sviluppare la rinnovata Lounge GB insieme ai loro tecnici e ho potuto approfittare della loro lunga storia di perfetta artigianalità e buon design. È stato molto interessante per me produrre la GB Chair cinquant’anni dopo.
Direbbe mai che ha 50 anni?
No, assolutamente. È molto contemporanea nell’estetica e molto coerente con lo stile di vita di oggi. Difatti, è stato uno dei prodotti più apprezzati di questo Salone del Mobile, se lo aspettava? Credo molto in questo design. Nel 1972 ero inesperto, spontaneo e ingenuo, ma ora, a distanza di 50 anni, ho più dubbi sul mio lavoro e spesso mi chiedo se la qualità dei miei prodotti sia la migliore che possa offrire. Quindi è stato bello vedere tutte queste reazioni positive.
Nel 1972 lei era un noto designer di gioielli e la multidisciplinarietà non era ancora un concetto così familiare come oggi. Quando ha iniziato a guardare al design da una prospettiva a 360 gradi? Chi erano le sue ispirazioni? E i suoi obiettivi?
Nella gioielleria mi mancava il contatto con un pubblico più vasto e l’ho trovato nel design. Tuttavia avevo bisogno di entrambi, dei gioielli e di progettare il prodotto. In pratica sono la stessa cosa, solo che mentre i gioielli sono realizzati in uno studio chiuso, il design coopera con altre discipline. Sono due gli artisti che mi hanno ispirato: Bruno Munari e Alexander Calder. Non potrebbero essere più diversi!
Fra tutte le sue creazioni, quali considera più rilevanti e perché?
Glasses del 1972, gli occhiali progettati per Polaroid e mai entrati in produzione, motivo per cui ho deciso di realizzarli per me stesso. Strip chair del 1974 e Coffee-maker, progettata nel 1980 e anch’essa mai entrata in produzione. Mi hanno dimostrato l’importanza degli imprenditori nel design.
Il design richiede un cliente e anche la ricerca, la conoscenza e la capacità di saper lavorare i materiali, è stato difficile passare dall’argento alla gommapiuma e viceversa?
No, ho imparato a lavorare i materiali martellando il rame. Nel 1963 ho martellato un contenitore di ottone di 50 cm di diametro e mi sono reso conto di ciò che un materiale può effettivamente fare.
Lei ha studiato il legame tra artigianato e design molto prima che questo diventasse un fenomeno di moda. Come è successo?
Tutto è iniziato con la mia formazione artigianale, ho imparato le varie tecniche, ma quando nel 1962 ho realizzato a mano un servizio da caffè, odiavo la finitura martellata e limando e levigando il prodotto ho ottenuto ciò che volevo, un aspetto “moderno”.
È sempre stato un pioniere: negli anni ’60 insieme a Emmy van Leersum ha cambiato la percezione dei gioielli, passando dal valore economico materiale al valore concettuale immateriale. Ha rappresentato una vera e propria rivoluzione e l’inizio della gioielleria contemporanea. Può raccontarci?
Semplicemente non condividevo il modo in cui la gioielleria si stava sviluppando, troppo di nicchia, senza più contatto con il mondo, con il corpo, con l’essere umano. È così che sono nati Shadow Jewerly nel 1973 e Profile on Emmy nel ’74.
Un’altra avventura pionieristica è stata quella del Droog design, da lei fondato con Renny Ramakers nel 1993, quali erano i pilastri di Droog?
Il design come mentalità, come atteggiamento verso la società. Un design che si può toccare, che interessa e che rende felici. Ho visto molti dei miei studenti di Eindhoven occuparsi di questi temi e ho pensato che avrebbero potuto dare un nuovo impulso a Milano durante il Salone per cambiare la mente della gente sul design e ha funzionato. È stato l’inizio del Dutch Design, un titolo che ha preso vita intorno al 2000.
Quest’anno ha compiuto 80 anni, ma non si direbbe. Qual è il suo segreto?
Essere curiosi, avere una mentalità aperta e fare sport ogni giorno!